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PSICOLOGO MICHELA CARMIGNANI
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Autolesionismo

Autolesionismo: quando il dolore fisico è usato come “anestetico” contro la sofferenza emotiva. Si tratta di un segnale di disagio acuto, da prendere in considerazione e non sottovalutare, in quanto rappresenta un vero e proprio attacco alla propria persona. L'autolesionismo viene in genere definito come il tentativo di causare deliberatamente un danno al proprio corpo, lesionandosi in modo abbastanza grave da provocare danni ai tessuti. Procurarsi volontariamente bruciature di sigaretta, tagli con lamette, lacerazioni su gambe e braccia, strapparsi i capelli, sono modalità usate, soprattutto in età adolescenziale e da persone di sesso femminile, per stordirsi e ingannare la mente: quando i recettori della pelle sono impegnati nella trasmissione delle sensazioni di dolore al sistema nervoso centrale, c’è meno spazio per l’angoscia. Le motivazioni riportate da chi assume queste condotte riportano anche al bisogno di colmare il vissuto intollerabile di vuoto interiore: procurarsi una sensazione fisica è un modo per “sentirsi”, per dare una forma al vuoto sperimentato, per avere, paradossalmente, una verifica della propria esistenza e per ricordarla, attraverso le tracce che rimangono visibili sul proprio corpo, anche agli altri. Il bisogno di ferirsi può accompagnarsi a stati depressivi e rappresentare un tentativo per la persona di prevenire il suicidio. Altre volte può presentarsi insieme a disturbi dell’alimentazione, come una forma di auto-punizione per una presunta trasgressione alimentare. Spesso la persona vive con vergogna questa condotta in quanto ciò che apparentemente è contrario all’istinto biologico di sopravvivenza tende ad essere etichettato come sintomo di follia e, dunque, ad essere immaginato come una manifestazione estremamente rara. In realtà il fenomeno è abbastanza comune e, in forme diverse, più o meno “lievi”, noto a molti: rosicchiarsi le unghie, fumare, abbuffarsi fino a star male, sono alcuni esempi.
La persona che si ferisce per gestire la propria sofferenza, ha bisogno di essere aiutata a decodificare il proprio disagio e ad imparare modalità più funzionali per gestire il dolore. La psicoterapia guida questi pazienti verso un maggiore ascolto e comprensione delle proprie emozioni, perché possano cogliere i bisogni sottostanti all’angoscia e al vuoto e individuare vie maggiormente protettive per poterli soddisfare.

 

 

Michela Carmignani

 

Pubblicato su “il quartiere”, maggio 2006

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